La bulimia è un disturbo in aumento, che coinvolge persone sempre più giovani. L’esordio dei primi problemi con il cibo, come conferma l’Istituto neurotraumatologico italiano, arriva già a 11, 12 anni.
Ora, però, c’è un nuovo approccio di cura, grazie al protocollo messo a punto dal dottor Riccardo Dalle Grave, endocrinologo, nutrizionista e psicoterapeuta e dal professor Christopher Fairburn, psichiatra e ricercatore dell’università di Oxford (GB). L’obiettivo è responsabilizzare il paziente, rendendolo protagonista della sua guarigione. Senza costrizioni e coinvolgendo solo indirettamente la famiglia.
Annalisa Rossi, 41 anni, di Vicenza, si può considerare un’antesignana di questa terapia: ha sofferto di disturbi alimentari da ragazzina e dopo aver affrontato il percorso di cure “classico” in clinica, ha trovato la forza per uscire dal tunnel della bulimia montando in sella e pedalando decisa verso la definitiva guarigione.
Il sogno di essere perfetta
«A 17 anni non ero soddisfatta del mio corpo», racconta la nostra protagonista. «Sognavo di diventare come Helena Christensen e Tatjana Patitz, due supermodelle degli anni Novanta. Volevo essere più bella, più alta, più slanciata, invece ero un’adolescente carina, un po’ timida, assolutamente nella norma.
Ma pensavo che, gestendo con cura la dieta ce l’avrei fatta ad assomigliare a loro. Così ho iniziato a mangiare un po’ meno, a togliere pane e pasta per eliminare quelli che mi parevano dei chili di troppo. Poi questi comportamenti hanno iniziato a essere evidenti agli occhi di mia madre. Che prima a parole, poi minacciando di non farmi uscire di casa, mi obbligava a mangiare.
Io però quel cibo lo sentivo come qualcosa di estraneo, che ero costretta a mettere in bocca, a deglutire e che mi faceva star male, perché interferiva con il mio progetto. Così ho iniziato a chiudermi in bagno per vomitare. Era la soluzione più semplice: mamma era tranquilla e io pure».
Il baratro e poi la risalita
Quella che Annalisa ritiene una strategia vincente, in realtà, le si ritorce contro: inizia ad avere il mal di stomaco costante, l’alito pesante, l’umore sempre sotto i piedi.
«Ero frustrata: più fatica facevo a non assumere cibo, a rigettarlo, più il mio aspetto era anonimo. Ero ossessionata dai capelli, che erano diventati stopposi, secchissimi. E dal colorito, perennemente pallido», racconta.
Intanto si iscrive all’università ma non riesce a stare al passo con gli studi: il pensiero era fisso, 24 ore su 24, sul suo aspetto fisico. Finché lancia un grido d’allarme.
«Una sera, mentre ero sola a casa, davanti alla tv, ho aperto il frigo e ho iniziato a mangiare quello che ho trovato. Non per gustare qualcosa di particolare, semplicemente per fagocitare ciò che avevo davanti. Alla fine, travolta dal senso di schifo, mi sono chiusa in bagno, per vomitare», spiega. Quel giorno inizia la sua vita da bulimica e di frigo svuotati.
«Dopo un po’, mamma decise di portarmi da uno psicologo. Lo ricordo come un uomo che mi giudicava, senza capirmi. Siamo andati avanti così quasi un anno, poi sono stata ricoverata in un centro di cura, per un mese. Lì ho conosciuto Aurelia, una ragazza di 25 anni che soffriva di anoressia. La guardavo e non vedevo altro che un corpo sfinito, che non ce la faceva più. Lei, secondo me, è stata la motivazione più forte per farmi cambiare. Lei che al mattino indossava le scarpe da ginnastica per fare il giro del parco, 500 metri più faticosi di una maratona. Lei che voleva rivedere i muscoli sulle sue gambe scheletriche e che si fissava a voler fare le scale a piedi, sempre. Anche se faceva uno sforzo enorme», ricorda la nostra protagonista.
La fatica ha dato grandi frutti
Aurelia e Annalisa, uscite dalla clinica, rimangono amiche. Vivono a 12 km di distanza. E si raggiungono pedalando, in bicicletta.
«C’è voluta tanta, tanta fatica. Però ci siamo sostenute a vicenda. E la bici ci ha aiutato a riprendere il controllo del nostro corpo: un po’ di sforzo sano, il fiatone, i muscoli indolenziti erano sensazioni positive. Pian piano, abbiamo avuto la soddisfazione di vedere le gambe che diventavano più “carine” (è questo il termine che noi usavamo), e che il fisico era più forte: ci arrotondavamo ma diventavamo più belle», continua Annalisa.
Se lo sport ad alto impatto viene scoraggiato da tutti i protocolli di cura nel caso di disturbi alimentari, perché è visto come sintomo dell’ossessione per il proprio corpo, questo in versione “easy”, è vincente. Infatti, viene consigliato ai pazienti in via di guarigione: per riprendere un rapporto sano, attivo, con se stessi.
Oggi Annalisa continua a essere una biker appassionata. E in sella fa anche le vacanze con tutta la famiglia. Senza più perdere se stessa.
Una nuova terapiapsicologica
Messa a punto dal dottor Riccardo Dalle Grave, a Garda (VR), in collaborazione con il professor Christopher Fairburn, è rivolta ai soggetti più giovani e dura dai 4 ai 6 mesi. Rivoluziona il tradizionale sistema di cura, tra cui il Trattamento basato sulla famiglia (Fbt) che ritiene i ragazzi incapaci di controllarsi da soli.
Affidati alle cure dei genitori, che tendono a usare metodi coercitivi, restano soggetti passivi. Con il nuovo approccio, i giovani pazienti non vengono costretti a fare nulla. Anzi, sono aiutati a capire il problema e a scegliere in autonomia gli strumenti per superarlo.
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Articolo pubblicato sul n° 14 di Starbene in edicolca dal 19 marzo 2019