Quando si parla di allergie alimentari e intolleranze, c’è sempre una fila di presunti pazienti pronti a portare la propria esperienza personale, che spesso va ben oltre la scienza. L’argomento sta diventando sempre più gettonato e, alla fine, sembra che quasi tutti abbiano problemi con un gran numero di cibi. Forse è il caso di sgombrare il campo dalle dicerie, mettere da parte i tuttologi e chiedere a chi ne sa davvero di più, come la dottoressa Elisabetta Bernardi. Autrice di Mangiare secondo la scienza. La salute nel piatto (ed. Dedalo, 17 €), nel suo libro dedica all’argomento un capitolo intero. Ecco cosa ci ha raccontato...
Diagnosticare un’allergia è abbastanza semplice, ci sono test specifici. Quando invece si parla di intolleranza o sensibilità ci si perde in un ginepraio di test. Come fare?
È vero. Nel momento in cui parliamo di intolleranza e sensibilità diventa tutto più complicato. Perché ci sono tante proposte, non tutte accettate dalla comunità scientifica. E poi la diagnosi potrebbe richiedere molto tempo. Per quanto riguarda la sensibilità, il medico può suggerire al paziente di rinunciare a certi alimenti per 4-6 settimane, in modo da monitorare i sintomi. Quindi, alla fine di questo periodo, segue una reintroduzione lenta e Q graduale dei cibi eliminati, meglio se uno alla volta, e si osserva se i sintomi ritornano o peggiorano.
Per le intolleranze alimentari, invece, le uniche due forme riconosciute scientificamente sono quelle al lattosio e al glutine, quest’ultima nota anche come sensibilità al glutine non celiaca. Per diagnosticare la prima ci si affida al breath test, il test del respiro; riguardo alla seconda, invece, non ci sono prove.
Esistono, però, quelle per la celiachia: si tratta di test sierologici che ricercano nel sangue del paziente gli anticorpi specifici (anticorpi anti transglutaminasi, antiendomisio, antigliadina deamidata); la conferma, poi, viene dall’esame istologico di campioni di tessuto ottenuti tramite biopsie duodenali, effettuate nel corso di una esofagogastroduodenoscopia (un esame che permette l’osservazione interna di esofago, stomaco e duodeno, un segmento dell’intestino tenue).
I tanti test “alternativi” in circolazione non sono affidabili?
La maggior parte, anche se somministrati in studi medici, farmacie e laboratori, non è in grado di individuare le cause di presunte intolleranze alimentari. Non hanno validazione scientifica e, facendo due volte l’esame, spesso si ottengono risultati diversi.
Sono molti (fra cui kinesiologia applicata, DRIA test, test di citotossicità o test di Bryan, ALCAT test, test EAV o elettroagopuntura secondo Voll, Vega test, Sarm test, Biostrength test, test di provocazioneneutralizzazione, biorisonanza, analisi del capello, pulse test o test del riflesso cardiaco-auricolare, mineralogramma, iridologia, test bioenergetico di virus e batteri), e il pericolo, oltre al fatto di dare informazioni non valide, è anche quello di ritrovarsi a seguire diete inutili o dannose.
È vero che un microbiota alterato può favorire allergie e intolleranze?
Sì. Nel caso della celiachia, per esempio, gli studiosi hanno riscontrato che la diagnosi è preceduta da uno squilibrio del microbiota intestinale. Ed è vero che un microbiota alterato è in grado di contribuire allo sviluppo di allergie e intolleranze perché è parte del nostro sistema immunitario in grado di modulare le difese.
Inoltre, interviene nella digestione di alcuni componenti alimentari, e avere un sistema in disequilibrio può portare anche ad accusare problemi digestivi e intolleranze. Proprio per questo è bene seguire un’alimentazione che non sia carente di fibra: se i microorganismi non ne hanno a disposizione vanno a nutrirsi del muco che riveste e protegge l’intestino, facilitando poi l’ingresso di quelle sostanze che possono innescare delle reazioni allergiche.
L’impatto dei fattori ambientali e dei nostri comportamenti sulla genetica (epigenetica) ha un ruolo nel favorire allergie e intolleranze?
Oggi l’attenzione si sta focalizzando soprattutto sul ruolo delle proteine, una parte importante della struttura del DNA. Questo perché alcuni fattori ambientali possono accendere o spegnere un gene e, di conseguenza, influire sulla produzione di una proteina che in qualche modo può favorire o meno la predisposizione che ci è stata trasmessa dai nostri antenati.
L’epigenetica può aumentare la probabilità di sviluppare allergie o intolleranze perché l’espressione dei geni è coinvolta nel sistema immunitario. Questo spiega perché due persone con lo stesso corredo genetico, ma esposte a ambienti diversi, possono riportare reazioni differenti agli stessi alimenti. Nel caso della celiachia, per esempio, si può essere predisposti e il problema potrebbe venire fuori solo in seguito a un fattore scatenante come una gravidanza, il parto, un incidente o livelli di stress elevato.
Ci sono innovazioni allo studio per la celiachia?
Oggi, in fase di sperimentazione c’è un vaccino chiamato Nexvax2, che ha l’obiettivo di diminuire la sensibilità del sistema immunitario dei celiaci, in modo che non reagisca al glutine. Un altro fattore sono quelle che vengono chiamate nanoparticelle: in questo caso il glutine viene inglobato in un guscio di proteine riconosciute come amiche dall’organismo, che insegnano al corpo a tollerare il glutine.
Dobbiamo aspettare ancora molto?
Un po’, perché sia per il vaccino sia per le nanoparticelle siamo nella fase due, e bisogna arrivare alla terza. La sperimentazione è abbastanza lunga, ma sono molti i ricercatori e gli istituti che stanno studiando questa patologia. Perciò possiamo ben sperare.
C’è chi dice che da adulti si diventa intolleranti al lattosio perché il latte dovrebbe essere consumato solo nell’infanzia, è così?
No, perché secoli fa le popolazioni del Nord Europa hanno registrato una mutazione genetica che ne ha reso possibile la digestione, permettendo così alla capacità di tollerarlo di diffondersi.
Ci sono cure?
No, occorre assumere l’enzima lattasi per via orale. Ma deve fare attenzione anche chi presenta la mutazione che permette di digerirlo: se si interrompe a lungo l’assunzione di alimenti che contengono lattosio si potrebbe sviluppare una sensibilità. Nel caso si può intervenire reintroducendo gli alimenti che lo contengono, cominciando con piccole quantità. In questo modo si riesce lentamente a rieducare l’organismo a bere il latte e digerire il lattosio.
Mamme, è ora di prevenire
Sono più di 170 gli alimenti associati a reazioni mediate da IgE, e i più comuni sono uova, frutta a guscio, latte, soia, grano, pesce e crostacei. «Le allergie alimentari colpiscono circa il 6-8% dei bambini, una fetta abbastanza ampia della popolazione infantile, ma nella maggior parte dei casi il problema si autorisolve con la crescita», tranquillizza Elisabetta Bernardi.
Cosa fare per evitare che i bambini possano svilupparle? Innanzitutto è bene che le future mamme curino il benessere del microbiota assicurandosi grassi Omega-3 a catena lunga, di cui è ricco il pesce, e allattino esclusivamente al seno. Inoltre, prima dei 6 mesi è preferibile evitare di iniziare lo svezzamento e non proporre al piccolo alimenti come le uova. Limite che si sposta a un anno d’età nel caso delle arachidi.
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